Sabato 4 dicembre 2004





A casa mia, con Paolo, Luigi, Ugo e Pippo. Non è un caso di frazionismo: qualche settimana fa ho compiuto 65 anni e festeggio la mia andata in pensione. Il menu è la fotocopia di quello del nostro primo incontro a tavola, molti anni fa: polenta, aringhe, Bra stagionato e - finalmente - vino bianco, Timorasso delle Valli Unite. Tutti pensionati; anche Pippo che è il più giovane ma ha preso 5 anni di abbuono con l'amianto. Solite battute: "quanto credi di campare", "sembra ieri" ecc.
Aria di rimpatriata ma neppure troppo. Anche le cose che ci diremo a proposito degli anni di piombo - che all'epoca nessuno chiamava così - son venute fuori da discorsi sull'oggi. E' cominciata con Paolo. Paolo è informatissimo su un sacco di cose; ha molti "giri" e specialmente è grande amico di un ristoratore dell'alto Bisagno dove spesso vanno a mangiare persone che contano; e parlano. Ad esempio di una serie di fienili di recente trasformati abusivamente in villini, volumetrie esplose, soldi in proporzione e compagneria compromessa "fino al collo". Il tutto per dire come la corruzione non abbia più confini se non quelli degli stessi gruppi affaristici con la conseguenza di falsificare qualsiasi aspetto della vita politica. Anche se le informazioni di Paolo sono superiori alle nostre, nessuno si è stupito. Tutti conosciamo casi analoghi; anche più imbarazzanti.
Butto lì che tra qualche mese ci saranno le elezioni regionali. Il centro sinistra cerca la rivincita; ha cominciato la sua campagna elettorale già dall'estate scorsa. Domando: secondo voi sono ancora dei nostri o no? Con "nostri" - loro capiscono benissimo - non mi riferisco alla parrocchietta ma a una rappresentanza politica interprete - per approssimazione, si capisce - delle istanze che hanno segnato la nostra vita, a cominciare dalla "bella stagione" di cui ci siamo detti negli incontri passati.
E' seguita una vera discussione. Osservazioni meditate, non reticenti. Vuol dire che continuiamo a pensarci? E' perché siamo più vecchi? O perché abbiamo sperato di più? O semplicemente perchè abbiamo conosciuto giorni in cui tanti mostravano e distribuivano ricchezze nascoste e siamo colpiti dall'avarizia di oggi?
Riferire questo genere di dialoghi li immiserisce. Li riduce a una specie di Convegno dei cinque che oggi nessuno sa più cos'è. Invece si sentono cose interessanti e ci si diverte pure. A farla da padrone son sempre le storie di beffe, di situazioni paradossali; il sale della vita. Il Bra e le aringhe fanno la loro parte: mettono sete e si beve; molto. Nel nostro modo di stare assieme c'è qualcosa di antico, che risale a quando ero ragazzo ed era patrimonio più delle riunioni operaie che di quelle borghesi, casalinghe. In sostanza: quando uno parla gli altri stanno a sentire, non fanno comunella a parte. Magari interrompono, provocano ma sempre per far parlare, per valorizzare il dialogo. Non si parla mai tutti insieme; per chi ha la parola c'è uditorio, platea; come a teatro. Mi pare che oggi non succeda più.
E' stato Pippo a tener banco per primo. Improvvisamente mi sono ricordato dei suoi interventi alle riunioni del "manifesto", 30 anni fa. Coniugava la politica con schemi logici, corposi, che costruiva con pazienza, in solitudine. Non andava mai al cuore della discussione senza prima aver dato ragione del procedimento che aveva seguito per arrivare a formulare il giudizio. Era giovanissimo; si doveva confrontare con gente più vecchia di lui, con più studio; forse pensava di doversi difendere o forse voleva spiegarsi meglio. Un modo di fare rispettabile ma in quelle riunioni notturne, sempre sul filo dello stress del "che fare" l'indomani, mi sembrava una inutile perdita di tempo. Ero sicuramente più pratico di lui ma oggi non sono sicuro che quelle riunioni avessero bisogno più della mia praticità che delle sue riflessioni. Acqua passata. Pippo ha detto che le parole, da anni, anno dopo anno, hanno cambiato il loro significato. "Ma proprio tutte, anche le parole più semplici: partito, sindacato, elezioni, programma, composizione delle liste... Trent'anni fa mentre le pronunciavi pensavi a delle cose ma oggi una qualsiasi persona discretamente giovane quando pronuncia queste parole pensa ad altro di quello che si pensava ieri". Spiega: non è che "il partito" fosse più democratico di oggi, le elezioni una cosa più seria, il candidato idem e il sindacato fosse al servizio dei lavoratori. Anche se eravamo ingenui - e spesso lo eravamo, dice Pippo - sicuramente non era così. Semplicemente pensavamo che a queste parole corrispondessero delle realtà imperfette, che avevano dei difetti; gli stessi che ci suggerivano come quelle realtà avrebbero dovuto essere o avrebbero dovuto diventare se avessero vinto le nostre idee, le nostre lotte. Oggi nessuno pensa che si tratti di difetti, patologie: pensano proprio che siano così come sembrano, immodificabili.
Ugo, forse perché è il più vecchio, cerca sempre di dimostrare che le novità non sono poi così nuove. Ha detto che fino a 30-35 anni fa c'erano sicuramente più parole "politiche" e gli iscritti al partito erano di più e più coinvolti in riunioni di ogni tipo ma da qui a dire che contavano di più o che si faceva più politica ce ne corre. Anche la politica spettacolo, a ben vedere c'era già: raduni, bandiere... "un po' come poi è venuta la Lega di Bossi". Secondo Ugo la ragione è che allora "più che bandiere non avevamo da agitare; dopo invece..." - e col pollice e l'indice fa il segno dei soldi. Prima eravamo fuori del governo, fuori degli affari. C'erano l'Emilia, la Toscana, l'Umbria con le amministrazioni rosse che venivano indicate come esempi di buon governo e che erano la prova lampante della nostra diversità. Qui Ugo ha fatto una delle sue smorfie e ha chiosato "diversi, diversi ma anche lì di qualche scandaletto si sapeva... Però era l'eccezione".
Luigi l'ha interrotto: "Alua a differensa saieva che oua se sun missi a arobà? Ma se l'en i meximi de primma cose l'è successo? Che basta che se mettan a toua che subitu ghe va e man in ta cantia?" Mi chiedo perché mai Luigi non venga invitato a quelle riunioni importanti dove si parla dei rapporti tra politica, morale e comportamenti. Ha un linguaggio un po' legnoso, a volte brutale, ma sa andare al cuore delle questioni. Tant'è che da quel momento tutti abbiamo girato attorno alle sue domande. Ugo ha cercato di metterla sul buon senso e ne è venuto fuori una sorta di apologo: "Ti sè cumme a l'è: primma ti arobi pou partiu e beseugna dì che nu se semmu mai scandalisè. Pou partiu han fetu feua de gente e ti veu anà a fa in scandalu pe in po de palanche? Poi l'è vegnuo che nu saveivan ciù pe cose arobavan perchè nu l'è fasile. Nu l'è cumme pigià mille franchi per na cosa e via. Nu! L'è cummensou in regiu de diné, affari, appalti, pigià dui per dane un, un travaggiu chi pe' pigiane quattru lazù... E cun chi ti te metti a fa i affari? Ma cun quelli che g'ha i diné. Cuscì l'è vegniuo in scistema che ghe sun drentu fin a u collu e luiatri veuan propriu restaghe drentu, fin a u collu e se peuan anche de ciù. Nu l'è che ga pigiou de man, l'è propriu quellu che vueivan fa; cumme in Cinna, cumme in Ruscia. Sulu che u prublena duvu l'è? Che sta chi, da nuiatri, l'è na specie de demucrasia, che ti vè a vutà ogni tanti anni. E a gente cose ti ghe veu dì? Che semmu in affari cun Agnelli, che emmu decisu... Nu, nu ti peu. Alua t'a cuntan. E finché l'en cose de banche e de finanza nu ti e veddi poi però quando cumensan cu e palassinne, cu a currusiun in tu comune duve ti vivi, duve ti cunusci tutti, alua... Alua l'è tardi, nu gh'è ciù ninte da fa perché l'è vegnuo in scistema".*
Abbiamo creduto al cambiamento, aggiunge Ugo, finché ci sentivamo diversi e ora che abbiamo scoperto che non lo siamo al cambiamento non crediamo più. "Eravamo scemi prima quando pensavamo di essere diversi e lo siamo di nuovo oggi perché non crediamo più a niente. Siamo gente così, che preferiamo la fede alla ragione". Qui Ugo ha fatto capire che a queste cose ha pensato molto. E' la politica, ha detto, e non la natura umana ("cumme semmu fèti") che ci fa diversi. "La diversità non era che avevamo tre coglioni mentre gli altri ne avevano due ma la nostra volontà di toglierci dai piedi lo sfruttamento, l'ingiustizia, l'ignoranza e specialmente le automobili - le auto sono, da sempre, il suo chiodo fisso. E quando nel '68 finalmente si è cominciato a parlare di queste cose e poi nel '69 è cresciuta ancora, sono arrivate un bel po' di bombe a levarci i grilli dalla testa".
Con le sue parole, finalmente, le bombe sono arrivate sul tavolo. "Vi siete accorti, chiedo, che in tutti gli incontri che abbiamo fatto quest'anno, di bombe non abbiamo mai parlato? Parlato di tutto ma di bombe no". "Magari è una censura" ha detto Ugo, pensoso. Convincente: potrebbe non essere un caso che se ne sia parlato in un incontro come il nostro di oggi, diverso dai soliti, più personale; come se quei ricordi fossero dominati da un sentimento di vergogna. Piazza Fontana, Questura di Milano, Brescia, Italicus, Bologna: i nomi li ricordiamo tutti, non così le date. L'unica data certa per i presenti è il 12 dicembre 1969: Piazza Fontana. Scolpita, come fosse il 25 aprile; al contrario di quelle delle altre stragi e poi dell'assassinio di Casalegno, di Moro, di Rossa e di altri ancora.
"Le bombe erano contro di noi; altro che avvolte nel segreto". Anche Paolo parla in dialetto, forse perché si rivolge a Ugo o forse è un modo per sottolineare la natura personale delle cose che va dicendo. Che le stragi fossero "di stato", dice, ci sembrava quasi impossibile; una cosa troppo grave anche per chi come noi pensava il peggio. Ma che erano contro di noi non c'erano dubbi. Oggi capisco che avrebbero potuto cancellarci, d'un colpo. E sai perché non è stato così? Non per la storia di anni prima, del partito, dei partigiani e del resto; no. Non ci hanno cancellato solo per quei 18-20 mesi di parole, lotte, incontri, gruppi, comitati studenti e madonne varie. Avevamo messo su una forza, una fiducia in noi, una speranza come non era mai esistita; una cosa che neppure ce n'eravamo accorti. Non ci sentivamo una parte ma un tutto; belin non eravamo più gli operai, eravamo l'Italia. Neppure nel dopoguerra - quando ce la raccontavamo - avevamo mai avuto un pensiero così.
La speranza che da sola può mandare in fumo il disegno nemico; bello!
Il gioco delle date è sempre istruttivo. Quali ricordiamo, quali dimentichiamo, quali confondiamo, con quali altre le confondiamo; poi c'è la ricerca dell'approssimazione: prima questo o quest'altro? Io le ho in testa abbastanza precise solo perché sto lavorando ad una ricostruzione di quegli anni, ma non mi scopro. Oltre Piazza Fontana arriviamo ad attribuire - con la quasi certezza - al 1974 la strage di Brescia e l'Italicus. Bologna resta incertissima. Anche Moro non è sicuro; si stabilisce che è stato prima di Rossa. Ugo ricorda la strage di Bologna, agosto 1980, perché proprio in quei giorni andava in pensione.
E le bombe di Savona? Ustica? Mattarella? Varisco? Ambrosoli? Butto lì dei nomi a casaccio: ricordano - anche particolari interessanti - ma date niente, neppure approssimative. Come se dopo il 1974-75 la sovrabbondanza dei casi, il mistero in cui molti di questi erano avvolti, avesse prodotto una separazione. Ma non è il caso di lanciarsi in ipotesi. Chiedo: cosa ricordate di quegli anni?
Paolo, lentamente e in dialetto: "Io, noi sentivamo l'aggressione. Magari usavamo la parola fascisti o destra a sproposito però attaccavano noi. Piazza Fontana magari sarà servita anche per regolare i conti tra loro ma in sostanza era contro tutto quello che era successo in Italia. Ti ricordi che nelle manifestazioni insieme a quello slogan francese del debut gridavamo a moeuia (matura!). Non era la rivoluzione ma la svolta sì. Del cambiare non avevamo il programma ma il sentimento sì. E allora trun, t'arrivano le bombe, da una parte e dall'altra. E lì vedi che giocano a rimpiattino. È lui, no è l'altro, sono quelli, no quegli altri, "compagni vigilanza!", "attenzione ai provocatori", "operai da una parte e studenti dall'altra". Non ci voleva tanto a capire dove volevano arrivare; le bombe le aveva messe qualcuno ma a usarle erano in tanti. E non è più finita. Ci siamo dimenticati le bombe sui binari dei treni che andavamo a Reggio Calabria? Lì è quando si è capito che da protagonisti stavamo diventando ostaggi; che potevano farci quello che volevano. E' il '72 l'anno che abbiamo concluso l'inquadramento, grande vittoria però - era sottinteso - ora basta; tutti nei ranghi. Ma era difficile riportare la gente nei ranghi. Anche perchè qui da noi, a Genova, le fabbriche erano vecchie e noi più disciplinati, più influenzati dal partito ma c'era mezza Italia che a scioperare aveva cominciato per la prima volta dal 1969. E tu vagli a dire che era tutto finito, che avevano avuto tutto, che dovevano stare zitti e buoni".
"Mi creddu - ha detto Luigi - che e brigate russe sun vegnie feua in te quellu mumento lì". E ha proseguito, in dialetto: "Sono stati intelligenti perché le prime azioni che si sono sapute erano le punizioni dei capetti, dei prepotenti. Gente che siccome il vento stava cambiando di nuovo tirava su la testa. Magari da noi meno ma era gente odiata e d'improvviso esce un gruppo che dice: siccome la politica ve lo mette nel culo, a questa gente ci pensiamo noi. Come quando hanno rapito Sossi qui a Genova. Belin, era dal '68 che facevamo i cortei e quando passavamo di fronte al tribunale che allora era a De Ferrari, gridavamo Sossi boia, si capisce che il giorno che l'han beccato i più di noi si son schiacciati l'occhio. Ma non solo noi, anche tanti che non l'avresti detto. Oggi capisco che non vedevamo certe conseguenze ma lì al momento abbiamo pensato che era una risposata dura, forse troppo, ma ci stava. Le cose che son venute dopo, a cominciare da Coco nel '76, hanno fatto capire che ci avevano preso in mezzo. Dopo quel fatto il comitato del Meccanico è sparito; da noi all'Asgen i vari benpensanti facevano girare nomi del nostro Comitato come sospetti brigatisti, ne annunciavano l'arresto.
"Almeno fino al '76, ha detto Pippo, le notizie che uscivano anche su l'Unità parlavano dell'attacco della destra. C'erano differenze su come affrontarlo ma sul fatto che ci fosse e fosse di destra non c'erano dubbi. Armi, campi paramilitari, attentati: tutta roba di destra che è stata dimenticata ma allora la cronaca era piena. Oggi si può pensare che fosse tutta una trappola ma anche se fosse così la nostra parola d'ordine era difesa della democrazia, antifascismo, antiautoritarismo. Le lotte sociali - quella per l'equo canone, le autoriduzioni e simili - erano lotte democratiche, per il progresso civile, contro i neri. Tra giovani e meno giovani di allora l'antifascismo è diventato popolare grazie a quelle lotte e non per le manifestazioni del 25 aprile o per quello che c'era sui libri di scuola. Poi quando dalla metà degli anni Settanta sono uscite tutte le sigle che hanno fatto a gara a ammazzare, il giudice, il giornalista, il generale, il poliziotto, son state le parole a fulminarci. Erano le nostre; le stesse, uguali. Tant'è che c'era chi li chiamava i compagni che sbagliano. Io non l'ho mai pensato. Non so se fossero compagni ma ho capito che ce lo mettevano in culo. Che eravamo fritti. Che non potevamo più muoverci. Ma non lo pensavo in astratto. Vedevo cosa succedeva in fabbrica. Se criticavi eri un sospetto; se votavi contro ti mettevano una spia o un provocatore vicino. Sono stati anni così.
Io: Allora il gioco prima l'hanno fatto i neri e poi i rossi?
Paolo: I neri ce li hanno messi contro ma lì la prospettiva forse era un'altra: ostacolare il picì al governo, buttargli sopra il patto atlantico. I rossi invece, almeno all'inizio, sembrava roba di casa nostra. Hanno dichiarato la guerra - partito armato e simili - e ce l'hanno fatta arrivare addosso. Volevano che ci schierassimo; basta con lo stare a guardare: o di qui o di là. Ma tutto quello che avevamo vissuto in quegli ultimi due anni non era di tornare a fare la guerra partigiana ma l'opposto. Erano lotte, democrazia, comitati, roba che c'erano voluti più di 30 anni per arrivarci e questi ci propongono la guerra, la militarizzazione. Che poi i generali sarebbero stati loro. Ma come si fa...
Si fa che parlare di sta roba ci ha messo addosso la depressione. Colpiti da qualcosa come un senso di spreco. Non genere "speranze deluse"; piuttosto stupore di come ci abbiano bevuto facilmente. Potremmo chiamarla "consapevolezza del lungo e faticoso percorso della democrazia" ma non funziona perché le storie di tangentopoli, dei partiti che si sono appropriati di tutto, degli immigrati messi sotto i piedi non sono fatte per essere ottimisti. "E' una legge della biologia", dice Ugo. Invecchi e capisci che non hai più la forza per mettergli il mondo per cappello. Allora fai il disincantato ma sotto sotto, e neanche tanto, soffri.
Alla fine, contro la sofferenza abbiamo praticato una lunga assunzione di Calvados portato da un compagno francese che vive là dove il Calvà si distilla. Dopo, tutto è apparso più sopportabile. In fondo siamo qui a raccontarcela no?





* "Lo sai com'è: prima rubi per il partito e bisogna dire che non ci siamo mai scandalizzati. Per il partito hanno fatto fuori della gente e vuoi scandalizzarti per un po' di soldi? Poi è venuto che non sapevano più per cosa rubavano; perché non è facile. Non è come prendere mille lire per qualcosa e via. No! E' cominciato un rigiro di denari, affari, appalti, prendere due per dare uno, un lavoro qui per prenderne quattro laggiù... E con chi ti metti a fare affari? Ma con quelli che hanno i soldi. Così è venuto un sistena che ci sono dentro fino al collo e loro vogliono proprio restarci dentro, fino al collo e se fosse possibile anche di più. Non è che gli ha preso di mano; è proprio quello che volevano fare, come in Cina, come in Russia. Solo che qui il problema dove sta? Che questa, da noialtri, è una specie di democrazia, che ogni tanti anni vai a votare. E alla gente cosa vuoi dirgli? Sapete siamo in affari con Agnelli e pertanto abbiamo deciso... No, no non puoi. Allora te la raccontano. E finché sono cose di banche e di finanza non le vedi, non ne capisci, poi però quando cominciano con le palazzine, con la corruzione nel comune dove vivi, dove ci conosciamo tutti allora... Ma allora è tardi; non c'è più niente da fare perché è diventato un sistema".


Manlio Calegari

Il Museo degli Operai


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